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Incantesimi. I costumi del Teatro alla Scala dagli anni Trenta a oggi

di Vittoria Crespi Morbio
Saggio di Vittoria Crespi Morbio
Cronologia degli spettacoli a cura di Andrea Vitalini
Amici della Scala – Grafiche Step Editrice, Parma 2017
Edizione italiana, pp. 312

CAPITOLO I. Dagli anni Trenta agli anni Sessanta

Con la scomparsa di Caramba (Luigi Sapelli) nel 1936, si chiude una fase storica precisa, nella quale il costume teatrale è concepito soprattutto quale gioco fantasmagorico e invenzione a briglia sciolta.
Caramba, personalità complessa che univa al talento artistico quello imprenditoriale, aveva caratterizzato il costume alla Scala, negli anni Venti e Trenta, come libera e geniale creazione della fantasia. Quando Nicola Benois gli succede nel ruolo di direttore dell’allestimento scenico, si apre una nuova stagione.
In Nicola Benois gioca un ruolo fondamentale l’eredità del padre Alexandre, che aveva lavorato per Djagilev e i Ballets Russes e conservava il tratto gentile e raffinato della tradizione mitteleuropea. Il figlio punta su un impatto visivo più spettacolare, come attesta il suo Boris Godunov.
I talenti cresciuti attorno a Luchino Visconti assorbono il gusto filologico del grande regista. La coerenza dello stile permette la coesione di regia, scene e costumi: è così che Franco Zeffirelli, Piero Tosi e Lila De Nobili creano una serie di spettacoli memorabili. Il costume è l’esito di una precisa ricerca culturale. Il rigore storico diviene una caratteristica irrinunciabile.
Gli anni Cinquanta e Sessanta sono anche l’epoca dei grandi divi, di Boris Christoff grandeggiante nel Boris Godunov, di Maria Callas, indimenticabile Amina e Violetta, di Renata Tebaldi. Una stagione d’oro nella lunga vicenda scaligera.

CAPITOLO II. Dagli anni Sessanta agli anni Ottanta

Gli anni Sessanta segnano un punto di rottura, si innesca un processo di revisione critica che porta a nuove strade di ricerca. Il costume scaligero rispecchia lo stesso principio di astrazione e la stessa ricerca materica che caratterizzano l’arte plastica e pittorica in Italia.
Esso diventa rivisitazione svincolata, come nel barocco citato da Piero Zuffi in Monteverdi, e sperimentazione sulle materie e sulla loro trasformazione. La scuola classica di taglio e cucito si confronta con gli esperimenti arditi di Pier Luigi Pizzi, che trasforma gli interpreti di Œdipus Rex di Stravinskij in ectoplasmi: i suoi sono abiti privi di struttura in senso tradizionale, sembrano lievitazioni di materia, bolle plastiche e trasparenti. Si percepisce l’affinità con le ricerche sull’informale fuori dal teatro.
Percorsi autonomi compiono artisti come Emanuele Luzzati, che utilizza il patchwork quale strumento lessicale nei propri costumi, e Vera Marzot, che per Luca Ronconi progetta immaginifiche figure passando per la metamorfosi alchemica dei tessuti. La tradizione del costume storico sopravvive con esiti ancora memorabili grazie ad Anna Anni e a Mauro Pagano. Quest’ultimo ritrova l’estetica ariosa del Settecento mozartiano in Così fan tutte.
Ma è soprattutto nel repertorio della danza che le canoniche regole sartoriali vengono ancora perseguite per favorire i movimenti del corpo. Così avviene nelle creazioni di Nicholas Georgiadis per Nureyev o di Luisa Spinatelli per Carla Fracci.

CAPITOLO III. Gli anni Ottanta

Il teatro lirico negli anni Ottanta ha uno dei punti di forza nel coinvolgimento degli stilisti, che portano in scena l’esito delle ricerche sulla moda.
È il caso di Karl Lagerfeld e di Gianni Versace, che alla Scala collaborano con due grandi figure del teatro di regia, Luca Ronconi e Robert Wilson. Il segno della loro personalità è fortissimo e decide una nuova svolta nella concezione del costume: quest’ultimo non è più funzionale al testo, ma vive di una propria autonoma dignità quale manufatto artistico creato con autentico virtuosismo. L’incrostazione di vari tessuti immaginata da Lagerfeld per la Didone dei Troiani di Berlioz bilancia lo sbocciare dell’organza di seta nera sulle maniche di Salome come la immagina Versace.
In entrambi i casi l’abito di scena consegue a un’estetica dello stupore e della fuga dal reale, permessa dal palcoscenico. L’opera rappresentata è l’ingresso in un mondo fantastico, sia esso il barocco macchinoso e sbalorditivo di Ronconi o la ritualità allucinatoria imposta da Wilson sulla scena.
Il costume ne è il compimento su misura dell’individualità dei personaggi, che diventano funzioni di un’idea di teatro. Sono gli stessi anni che segnano la piena maturità di registi la cui impronta è decisiva nella storia della Scala: Giorgio Strehler, che grazie ai costumi di Ezio Frigerio e Franca Squarciapino investe il palcoscenico di bagliori corruschi, e Jean-Pierre Ponnelle, creatore di tutti gli aspetti di uno spettacolo e mago di atmosfere notturne e argentee nella Donna senz’ombra di Strauss.

CAPITOLO IV. Dagli anni Novanta ai giorni nostri

L’affermazione del Regietheater germanico è solo parziale in Italia, e in forte ritardo rispetto al panorama teatrale di altre nazioni. Tale ritardo permette paradossalmente una pluralità di stili estremamente eclettica, nella quale è difficile stabilire un principio identitario comune.
Con gli anni Novanta, e nel secolo attuale, il costume viene declinato in modi diversi, e in un certo senso si torna alla disinibita libertà di Caramba. Lo scrupolo filologico appare più una citazione tra virgolette, spesso giocata con ironia e compiacimento, che una necessità stretta. Gli abiti per Falstaff creati da Brigitte Reiffenstuel sono filologicamente inappuntabili, ma si riferiscono a un periodo (gli anni Cinquanta in Inghilterra) che non è quello del testo verdiano. In altre parole, un’impostazione drammaturgica estremamente libera è la nuova matrice dell’abito di scena.
Così l’eleganza squisita di Gabriella Pescucci nella Traviata ritrova l’eco di Luchino Visconti con il gusto della citazione raffinata; il Seicento di Jacques Reynaud per l’Orfeo di Monteverdi si asciuga in un’essenzialità di forma che viene riassorbita nella cerimonia statica dello spettacolo di Robert Wilson; l’eterogeneità dei materiali impiegati da Odette Nicoletti per Idomeneo persegue una sintesi nel segno della libertà; la scatola scultorea pensata da Maurizio Millenotti, che ingabbia le figure del balletto Cinderella, è un Velázquez passato attraverso il postmoderno.
Forse confusa, difficilmente intelligibile nel senso della coerenza, la vetrina della contemporaneità ci rimanda un’idea multiforme e frazionata del costume teatrale. Proprio in questa pluralità versicolore risiede la vitalità formidabile di questa forma d’arte, e la ricchezza del suo rapporto con l’epoca presente.